Musica

Stefano Battaglia: “Ecco il suono delle città invisibili”

(foto di Aldo Venga)

L’intervista.

Stefano Battaglia, pianista senza frontiere, si affaccia alla torre di Babele delle diversità dei linguaggi musicali e riesce a trovare una miracolosa sintesi in un percorso che non è jazz, non è classica, ma è ricerca complessiva, dell’armonia, della melodia, dell’eufonia. Pianista di livello mondiale, strumentista virtuoso, con una formazione accademica, ha svolto vent’anni di rigorosa ricerca musicale, di introspezione e profondità espressiva.

Il nuovo disco del “Stefano Battaglia Trio” (con Salvatore Maiore al contrabbasso e Roberto Dani alla batteria, sempre per la prestigiosa etichetta ECM) si intitola “Songways” ed è un nuovo viaggio alla scoperta dei luoghi fantastici. Ne parliamo con l’artista milanese.

Come nasce il progetto degli omaggi alle città invisibili?
Ho bisogno in qualche modo di incanalare la mia creatività musicale, di orientarla. Rischierebbe altrimenti di essere disordinata e dispersiva. Mi servo di “contenitori” che poi interiorizzo per
disciplinare i periodi di scrittura. Ho immaginato una similitudine tra il parametro musicale armonico e le moderne megalopoli, che accolgono giustapposizioni antropologiche, idiomaticoestetiche,
dialogo tra passato e presente attraverso architetture e stili tra loro distanti, combinazione “verticale” di epoche e culture.

Ai luoghi invisibili avevi dedicato un primo disco…
Sì, “The river of Anyder”. Non mi aspettavo di realizzare così presto il secondo ma il primo è andato così bene che la casa discografica mi ha spinto a realizzare presto il nuovo capitolo.

Ci sarà anche un terzo disco a completare il trittico?
Non è escluso la realizzazione di un terzo album, sono oltre quaranta i brani che ho composto condizionato da questa disciplina.

Colpisce il suono di questo disco, la sua profondità espressiva, la ricerca lunga e meditata su ogni singola nota…
Il disco è tratteggiato da una parte con armonia, dall’altro con ritmo, ed è suonato con strumenti non certo sofisticati e musica senza sovrastrutture. E’ un ritorno alla semplicità.

Perchè focalizzarsi sulle città invisibili?
La scelta di usare come evocazioni dei non-luoghi, per lo più città irreali, mi consente l’uso dell’immaginario, dell’illusorio, le influenze sono più sottili e immateriali, ciò che le abita sono
figure paradigmatiche, luoghi dell’immaginazione, non di rado luoghi impossibili e misteriosi, proprio come talvolta è la musica, quando è contaminata da tradizioni antropologicamente distanti per epifania geografica e temporale. Una sorta di enorme simulacro di idee, illusioni e miraggi, perfetto per combinare suggestioni musicali diverse, celebrando i luoghi dell’utopia attraverso la danza e il canto, nel loro significato più semplice e primitivo.

Il disco si apre con una elegia dedicata a Euphonia…
E’ l’utopica città-conservatorio che Hector Berlioz aveva visionariamente sognata e descritta: la sua musica diventava fondamento dell’urbe, il pulsante cuore politico e sociale Ogni voce e ogni strumento aveva una strada che portava il suo nome e che veniva abitata solo dalla parte della popolazione dedicata a quella voce o strumento. Ho pensato quella città immaginaria lontana dal jazz, immersa nell’armonia pastorale di stile ottocentesco.

Parliamo di Ismaro e Mildendo, città fantastiche che si incontrano in viaggi avventurosi…
Ismaro è la città del ritorno. Il vento gonfiò le vele e spinse le navi di Ulisse nel porto della capitale dei Ciconi, la città traditrice che gridava vendetta. Per raccontarla ho pensato ad un linguaggio che fosse esplicitamente popolare, una danza greca in 7/4. Questo brano è l’esempio di quanto sia decisivo il contenitore a cui mi rivolgo per comporre: non l’avrei mai immaginato senza la sorgente creativa letteraria, il “concept” delle città fantastiche. Il brano “Mildendo Wide Song” è ispirata ai “Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, è la capitale del regno di Lilliput; la musica, la sua armonia,
raccontano dell’incontro tra microcosmo e macrocosmo.

Quindi l’omaggio ad “Armonia”…
“Armonia” è la capitale di Utopia, luogo paradigmatico teorizzato dal filosofo Fourier nel suo “Teoria dei Quattro movimenti”, che già nel settecento criticava la spinta capitalistica profetizzando una possibile sconfitta del libero mercato, che non avrebbe portato quel benessere che aveva promesso e acuito l’ampliamento del divario sociale. Il testo teorizza dettagliatamente una città perfetta nei valori e nell’umanizzazione, dallo sviluppo antropologico agli equilibri sociali, dall’arte all’istruzione, descrivendo persino la sua pianta architettonica: la lucana Campomaggiore, in Basilicata, fu costruita secondo quei principi “a scacchiera”. E’ un piccolo tema di quattro note sottoposto a numerose variazioni armoniche, come nel Ricercare, una continua scoperta di come “la stessa cosa” assuma sembianze diverse se diversamente “armonizzata”. L’armonia nella musica è diventato il parametro che più di ogni altro caratterizza l’estetica e l’appartenenza.

Vondervotteimittis, Abdias, Perla, sono luoghi (e suoni) avvolti nel mistero…
Vondervotteimittis è la città immaginata da Poe nel suo “Il diavolo nel campanile”, dove il diavoletto si nasconde nei meccanismi dell’orologio e spostando le lancette sconvolge la vita degli abitanti che vivono ossessionati dalla puntualità in riferimento all’ora segnata da questo orologio. Abdias è la città desertica raccontata dallo scrittore austriaco Adalbert Stifter; l’ho immaginata,
come è tratteggiata in quel racconto cupo, con un alone di enigma. Perla è la città delle angosce, l’ho vista come un luogo in preda ad un incubo perenne.

La title track è un brano molto bello, ma, mi sembra, pure quello che maggiormente siallontana dal discorso organico dell’album, per essere più degli altri jazzistico.
Songways è ispirato alle città fantastiche di Calvino, che sono tante e caratteristiche, proprio come le vie del canto, appunto: la sento una melodia caratterizzata da elementi di “italianità”. Anch’io ci trovo influenze di certo jazz degli anni settanta, così come le strutture di tutti questi brani risentono di certo rock inglese cosiddetto progressive o sinfonico.

Non poteva mancare l’omaggio a Babele, non a caso posto in chiusura.
La biblica Babele era un luogo dove le differenze di linguaggio creavano incomunicabilità e perciò ci si è protesi ad una comunicazione più profonda ed universale. Quello dovrebbe essere il posto della musica, a patto che i linguaggi non si sviliscano e diventino uguali in tutto il mondo, come rischia di accadere. Dobbiamo proteggere le diversità delle culture, perciò ho voluto concludere il disco con un vero e proprio inno; è un brano arcaico, idealmente scaturito da un musicale “Vecchio Testamento”, dove le voci si mescolano mantenendo la propria specifica individuale differenza. In questi tempi c’è bisogno di ridonare alla musica il giusto spazio, un ruolo più importante e profondo, nella società delle nostre moderne Babele multiculturali.

a cura di Gaetano Menna